FERRANDINA, TRA DAUNI, ENOTRI E IONI, SPUNTANO POPOLAZIONI MULTIETNICHE
Di Leonardo Pisani ( Sul Roma edizione Basilicata del 8 ottobre 2020)
Il Covid-19 ha bloccato l’Italia,
nella vita sociale e in molte attività lavorative, oltre che portare la
didattica a nella scuole di vario grado. La ricerca universitaria, specie
quella sul campo ha avuto stop, specie dove bisognava stare a stretto contatto.
Anche in Basilicata, anche in archeologia ma ora è ripresa e con ottimi
risultati, ne parliamo con risponde la Prof. Maria Chiara Monaco (Dipartimento
di Studi Umanistici dell’Università degli Studi della Basilicata) e direttrice
della missione e con i suoi collaboratori Fabio Donnici (professore
aggregato del DISU) e il dr. Antonio Pecci (dottorando di ricerca-DISU)
sugli scavi a Ferrandina, che hanno riportato alla luce oltre che reperti
importantissimi anche elementi che portano novità sugli antichi popoli della
nostra regione.
Avete scavato anche
quest’anno a Ferrandina. Come è stato possibile conciliare la missione con
l’emergenza COVID 19? |
MARIA CHIARA MONACO
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La missione archeologica che
annualmente dirigo a Ferrandina è terminata pochi giorni fa. A fine scavo la
soddisfazione è almeno doppia, risponde la Prof. Maria Chiara Monaco
(Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi della Basilicata)
e direttrice della missione. Non solo per gli importanti risultati raggiunti,
ma anche per l’essere riusciti ad organizzare materialmente il lavoro. Non era
affatto scontato. La pandemia che ha stravolto e che, imperterrita, continua a
stravolgere le nostre esistenze non ha risparmiato gli scavi
archeologici. Una stagione saltata per molti Atenei che operano sul
territorio. Le ragioni di tale stop sono facilmente immaginabili. Il COVID-19
obbliga alla prescrizione di rigidi protocolli, al distanziamento, all’uso
delle mascherine, a lavare continuamente le mani. Difficile programmare e
rispettare tali dettami quando i ragazzi che scavano vivono e lavorano insieme.
Tutto è da reinventare con nuove soluzioni:dalla sanificazione quotidiana dei
mezzi di trasporto al, non semplice,utilizzo strettamente personale degli
attrezzi da lavoro; dal distanziamento nei locali nei quali gli studenti
dormono, alla difficoltà di consumare pasti in comune. Nonostante tutto,
grazie alla fattiva collaborazione degli Uffici preposti dell’Ateneo e
all’insostituibile sostegno offerto ci dall’Amministrazione Comunale
(consentitemi un grande grazie agli assessori Alessio Giasi e Angelo Zizzamia e
al sindaco Gennaro Martoccia) ce l’abbiamo fatta! In quest’anomala estate
la campagna di scavo a Ferrandina, è stata l’unica missione archeologica
dell’UNIBAS e, unitamente alla missione del collega Mario Denti dell’Università
di Rennes all’Incoronata e di Oliver De Cazanove dell’Università della Sorbonne
a Civita di Tricarico, l’unico scavo universitario effettuato in tutta la
regione.
Dove avete operato?
I lavori sono proseguiti lì dove si
erano interrotti l’anno passato, sulla cresta della collina di Sant’Antonio,
poco prima dell’ingresso al paese moderno. L’anno scorso, dopo avere
operato intorno al frantoio di età lucana disposto a mezza costa sul versante
settentrionale della collina, si era deciso di esplorare la sommità della
stessa alla ricerca della fattoria dalla quale esso poteva dipendere.
Inaspettatamente, fatti alcuni saggi preliminari, ci si imbatté in una
importante necropoli di età arcaica della seconda metà del VII secolo a.C. Più
nello specifico delle novità dello scavo lascerei parlare i miei
collaboratori,il dr. Fabio Donnici (professore aggregato del DISU) e il dr.
Antonio Pecci (dottorando di ricerca-DISU) che hanno organizzato e seguito i
lavori sul campo.
Quali risultati sono stati ottenuti
con la campagna di quest’anno?
Le ricerche di
quest’anno hanno permesso di individuare – risponde Antonio Pecci – altre sette
sepolture che, sommate alle quattro rinvenute durante la missione dello scorso
anno, portano il totale complessivo a undici. Seppur le indagini archeologiche
nell’area della necropoli siano solo all’inizio, gli elementi nuovi finora
emersi sono molto numerosi.Tutte le tombe finora rintracciate, sono del tipo a
fossa terragna (scavate direttamente nella terra), riempite con il terreno
asportato e, in alcuni casi, coperte con lastre litiche. Il defunto era deposto
in posizione rannicchiata, una modalità tipica dell’ethnos che abitava
questa parte dell’attuale Basilicata. I corredi presentano elementi ricorrenti-
come la tazza ad impasto, l’olla a decorazione subgeometrica, il vasetto
attingitoio e la fibula in bronzo- accanto ad altri manufatti più rari: tra
questi i coltelli, le punte di giavellotti o i raschiatoi in selce.
Un’importante distinzione si riscontra inoltre tra le tombe maschili e quelle
femminili: le prime presentano un corredo molto povero, formato da pochi vasi
ceramici e un’arma di offesa come le punte in ferro di lance o di giavellotti o
ancora i coltelli, mentre le seconde si distinguono talora per la copiosa
presenza di monili bronzei (bracciali, anelli, fibule) e in ambra (vaghi di
collana).

In quale periodo vissero
e chi erano gli abitanti del sito di loc. Sant’Antonio?
I dati archeologici –
sostiene Fabio Donnici – rimandano ad una cronologia compresa tra la fine
dell’VIII e la prima metà del VII sec. a.C. A partire da questo periodo, e fino
al V sec. a.C., il territorio corrispondente all’attuale Basilicata si
configura come un vero e proprio crogiuolo di popoli e culture diverse: nel
Vulture erano stanziati i Dauni, nel Materano i Peuceti e nell’area appenninica
nord occidentale altri gruppi etnici dei quali non è noto il nome. La fascia
sub-costiera ionica invece era abitata dai Chones, i primi a venire in
contatto con i Greci che,nel corso del VII sec. a.C., fondarono sul litorale
Siris e Metaponto; la restante Basilicata centro-meridionale e tirrenica,
infine, era occupata dagli Enotri. La fisionomia culturale di questi singoli
popoli indigeni, anche se, per sua stessa, natura difficilmente incasellabile
in modo rigido, emerge oggi agli occhi degli archeologi grazie alla presenza di
specifici caratteri distintivi: tra tutti le forme del rituale funerario e le
produzioni ceramiche locali. Un’analisi preliminare delle sepolture di loc. S.
Antonio sembra rimandare ad un ambito culturale apulo (deposizioni
rannicchiate) e, più specificatamente, peuceta (corredo funerario), anche se
non mancano numerosi elementi che denotano il carattere culturale misto di tali
comunità. Ciò non sorprende se si pensa che il territorio ferrandinese, ancora
poco conosciuto in letteratura, era situato in una sorta di “buffer zone”
tra il mondo peuceta a nord, quello enotrio a sud e a ovest, la fascia ionica
ad est, costituendo altresì un importante trait d’union tra la costa e
l’entroterra della regione lungo gli assi fluviali del Basento e del Salandrella-Cavone.
Per diverse ragioni, dunque, questa scoperta presenta un grande interesse
scientifico e, con il prosieguo della ricerca, potrà consentire di aggiungere
un nuovo tassello alla conoscenza del complesso quadro insediativo dell’Italia
Meridionale del periodo considerato.
E il futuro della ricerca?
Grazie ad un finanziamento specifico
che abbiamo chiesto ed ottenuto dal Ministero dei Beni Culturali (un grazie
alla funzionaria dr. Simona Di Gregorio) a breve sarà possibile effettuare le
prospezioni geomagnetiche nell’area che stiamo indagando, risponde la Prof.
Maria Chiara Monaco. Le prospezioni, una sorta di radiografia del terreno, ci
consentiranno di guadagnare un’idea più chiara e precisa dell’estensione della
importante zona di necropoli e di programmare al meglio il lavoro futuro.
Inoltre la nostra attività di scavo a Ferrandina è parte di un più ampio e
vasto progetto di ricerca stipulato con l’Amministrazione locale che prevede la
creazione di un Antiquarium che contiamo di inaugurare entro la fine di
quest’anno o agli inizi del prossimo.
A presto, alla prossima
puntata dunque…
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